I tre alleati per la salute delle ossa
26/05/2015
26/05/2015
Le reazioni metaboliche del nostro organismo si possono grossolanamente suddividere in cataboliche e anaboliche. Nelle prime, si verifica una distruzione di tessuti finalizzata a produrre energia. Mentre nelle seconde si usa energia per sintetizzare e riparare i tessuti stessi. Fino ai 30-40 anni di età sulla Terra il nostro corpo vive in una condizione di equilibrio tra catabolismo e anabolismo. Con il passare degli anni iniziano a prevalere le reazioni cataboliche che portano ad una progressiva riduzione della massa muscolare e ossea. Negli astronauti, indipendentemente dall’età, la vita nello spazio stimola il catabolismo accelerando di molto la distruzione del tessuto osseo e muscolare.
In questo video l’ astronauta ESA Andreas Mogensen ci mostra come la salute delle ossa degli astronauti sia studiata anche ben prima della partenza per la Stazione Spaziale:
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Nel caso dell’osso esistono cellule diverse deputate a sintetizzare osso e a riassorbirle, dette rispettivamente osteoblasti e osteoclasti. Sulla Terra, così come nello spazio, una nutrizione corretta e un piano di esercizio fisico completo possono contribuire a stimolare le risposte anaboliche. Va ricordato che l’attività fisica di per sé ha un effetto catabolico sull’organismo e che è tramite il recupero e l’introduzione di alimenti che si attiva la risposta anabolica che porta al miglioramento della prestazione e all’aumento della massa muscolare e ossea.
Esiste, quindi, una sinergia fondamentale tra attività fisica, recupero e nutrizione sia sul piano quantitativo che qualitativo. Per esempio, è fondamentale la tempistica dell’introduzione di alimenti rispetto all’attività fisica. Non assumere alimenti immediatamente dopo lo sforzo non permette di attivare la risposta anabolica e rischia di far diventare l’allenamento controproducente.
Dr. Filippo Ongaro
Per saperne di più: www.filippo-ongaro.it/
21/05/2015
La luce è la sorgente di energia utilizzata dalla piante per la fotosintesi clorofilliana, ovvero il processo che consente alla pianta di “nutrirsi” e crescere, producendo al contempo ossigeno che viene liberato nell’aria. Le piante per vivere hanno quindi bisogno di luce e questo è vero sulla Terra come nello Spazio. La differenza fondamentale della crescita di piante nello Spazio sta nel fatto che la luce solare non è immediatamente fruibile come sulla Terra, o perché è eccessiva, come nei sistemi orbitali dove è quella diretta proveniente dal Sole (che è circa tre volte superiore alla massima che colpisce il suolo alle nostre latitudini), o perché non disponibile (come potrebbe essere nell’ambiente all’interno di navicelle spaziali o in serre planetarie schermate contro le radiazioni), o perché è molto ridotta a causa della maggiore distanza dal Sole e delle diverse condizioni ambientali presenti sugli altri pianeti.
Basta pensare ai diversi cicli giorno/notte (sulla Luna le notti durano circa 2 settimane), alle grandi tempeste di sabbia su Marte (che schermano la luce e la cui di durata non è prevedibile), all’assenza di un atmosfera come quella terrestre, che filtra o attenua le componenti dannose della luce solare. Tutto ciò fa sì che le piante non ricevano la luce nel modo in cui sono “abituate” sulla Terra, rendendo molto complicato, se non impossibile, la loro crescita.
Attualmente sono in fase di studio diversi sistemi che utilizzano la luce solare per illuminare le serre spaziali. Tali sistemi, più o meno complessi, utilizzano degli specchi parabolici, o altre tipo di ottiche, che concentrano i flussi luminosi in fibre ottiche che portano e distribuiscono la luce all’interno delle serre (Fig.1 e Fig.2). Tuttavia, per quanto detto, le prestazioni di tali sistemi sono direttamente legate alle condizioni ambientali e non risolvono completamente i problemi descritti precedentemente. L’indisponibilità totale o ridotta di luce naturale porta quindi alla necessità di progettare e realizzare degli impianti di illuminazione artificiale che siano complementari o alternativi a quelli che sfruttano la luce del sole, in grado di rispettare il ciclo biologico selezionato delle piante coltivate (che potrebbe anche essere diverso dal ciclo giorno-notte naturale) e di fornire la giusta quantità (e qualità) di luce per garantire una corretta crescita delle stesse. Tali sistemi devono garantire:
· Un’elevata efficienza di conversione tra energia elettrica e radiazione luminosa necessaria per la fotosintesi clorofilliana.
· Flessibilità per quello che riguarda la qualità della luce (cioè la possibilità di modificare la composizione dello spettro luminoso).
· Flessibilità per quello che riguarda l’intensità (cioè la possibilità di programmare la quantità di luce che raggiunge le piante) in maniera da garantire corretti cicli giorno/notte.
· Basso carico termico (parte dell’energia elettrica si trasforma in calore che può creare problemi nel controllo termico delle camere di crescita).
· Peso e volume ridotti delle sorgenti luminose e dei sistemi ad esse associati (in una missione spaziale è obbligatorio risparmiare peso al lancio).
· Durata e affidabilità delle sorgenti luminose (per limitare le attività di manutenzione e gli eventi di sostituzione).
Per le caratteristiche del loro spettro luminoso e per l’alta intensità di luce emessa, le lampade che potrebbero essere prese in considerazione per una serra spaziale sono quelle ai vapori di sodio (HPS), quelle agli ioduri metallici (MH) o le lampade a fluorescenza.
Le lampade ai Vapori di Sodio (HPS) hanno uno spettro luminoso paragonabile a quella del Sole in estate e sono ricche delle componenti nel rosso e arancione. Le lampade HPS standard mancano della parte blu dello spettro luminoso. Per ovviare a questo problema da alcuni anni esistono in commercio lampade HPS ad ampio spettro dotate della capacità di emettere anche luce nel blu. Queste ultime danno la possibilità di impiegare un solo tipo di lampada per tutto il ciclo di vita della pianta, sia per la crescita vegetativa (fase di crescita della pianta prima della fioritura) che per la fase riproduttiva (fioritura e fruttificazione).
Le lampade agli Ioduri Metallici (MH) hanno uno spettro luminoso con una maggiore presenza delle componenti nel blu e nel violetto rispetto alle lampade HPS, pertanto sono indicate soprattutto nella fase di crescita vegetativa. Anche in questo caso esistono dei prodotti specifici per l’utilizzo in serra, che offrono migliori prestazioni rispetto alle lampade standard.
Le lampade a fluorescenza hanno una resa minore rispetto a quelle agli ioduri metallici ma possono essere una valida alternativa nelle fasi iniziali del ciclo di sviluppo delle piante visto i costi ridotti d’acquisto e di gestione. Inoltre, hanno il vantaggio di produrre meno calore e interferiscono meno con i sistemi di controllo della temperatura in serra. La loro evoluzione ha portato sul mercato lampade a fluorescenza compatte con prestazione maggiori e consumi contenuti.
Tuttavia, le lampade descritte non risolvono alcuni dei problemi indicati sopra. In particolare non hanno lunga durata e quindi sarebbe necessario un gran numero di lampade di riserva con conseguente aumento del carico da trasportare e delle attività di manutenzione richieste. Inoltre sono delicate e potrebbero non resistere alle sollecitazioni al lancio. Infine, richiedono una grande potenza che potrebbe non essere disponibile nei luoghi di installazione delle serre.
Da questo punto di vista i pannelli a LED (Light Emitting Diode) sembrano la soluzione ideale per serre da costruire nello spazio, per camere di crescita a bordo di stazioni spaziali orbitanti o navicelle spaziali. I LED hanno una durata molto maggiore delle lampade descritte (100.000 ore rispetto alle 24.000 ore delle lampade a vapori di sodio), sono dotati di ampia flessibilità in termini di composizione dello spettro luminoso di emissione (nei sistemi a LED è possibile combinare le diverse componenti di coloro) che di intensità luminosa (cosa che li rende molto facili da utilizzare in sistemi automatici), non hanno bisogno di una grande potenza di alimentazione e non generano molto calore. Per questi motivo gli apparati per gli esperimenti di crescita delle piante a bordo della ISS implementano questa soluzione. Un esempio è camera di crescita VEGGIE (immagine di copertina), installata a bordo della ISS nell’estate del 2014.
Ovviamente le lampade, di qualsiasi tipo siano, richiedono energia elettrica per essere alimentate, e questo pone un altro problema. Come si genera l’energia necessaria ad alimentare i sistemi di illuminazione (ma più in generale per tutti i sistemi che caratterizzano un struttura spaziale)?
La risposta è semplice. E’ ancora il Sole e la possibilità di trasformare la sua energia luminosa attraverso i pannelli fotovoltaici. Tutti i satelliti, non appena arrivano in orbita dispiegano i loro pannelli fotovoltaici per iniziare a generare l’energica elettrica che serve al funzionamento dei vari sistemi. La stessa ISS è dotata di quattro coppie di pannelli, ognuna delle quali misura 73 metri da un’estremità all’altra. Tutte le sonde e i rover mandati su altri pianeti sono dotati di analoghi pannelli fotovoltaici. Una serra su un altro pianeta, piuttosto che a bordo di qualsiasi piattaforma spaziale, non potrà fare a meno di utilizzare questa tecnologia per avere energia elettrica disponibile.
Antonio Ceriello, Giuseppe De Chiara – Telespazio
18/05/2015
I progressi della ricerca agronomica, come la coltura “fuori suolo” (idroponica), consentono di allevare piante in luoghi e spazi un tempo ritenuti impossibili. Uno dei luoghi più estremi che si possano immaginare per la coltivazione di piante è certamente la Stazione Spaziale Internazionale, un laboratorio multidisciplinare in cui la ricerca è attiva anche per individuare le condizioni ideali per poter realizzare il riciclo di risorse vitali (tecnologie bio-rigenerative).
Nel quadro del progetto “BIOxTREME” finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana, il Laboratorio Biotecnologie dell’ENEA sta esplorando il potenziale delle piante per utilizzarle non solo come fonte di integratori alimentari antiossidanti, ma anche come sorgente di sostanze antimicrobiche. Questo al fine rendere più salubre sia l’ambiente nelle stazioni spaziali che la vita degli astronauti, rafforzandone le difese nei confronti della comunità microbica “importata” dalla terra che, nell’ambiente confinato dei veicoli spaziali, può rappresentare un grave pericolo per uomini e strutture.
Piante “tuttofare” dunque, che innescano un ciclo bio-rigenerativo di risorse vitali, come acqua e ossigeno, eliminando anidride carbonica, favorendo così la sostenibilità degli habitat delle stazioni orbitanti e costituendo allo stesso tempo un alimento ricco di molecole ad alto valore aggiunto.
Con questi obiettivi l’ENEA dedica la ricerca ad un tipo di pomodoro, il MICROTOM, nato come cultivar ornamentale, ma che, per portamento e caratteristiche intrinseche, ben si adatta ad un orto spaziale. Si cercherà quindi di costruire un “ideotipo” resistente alle condizioni estreme nello spazio come: assenza di gravità, radiazioni cosmiche, campi elettromagnetici. Una combinazione genetica per produrre piante in grado di accumulare grandi quantità di sostanze antiossidanti come le antocianine, le famose molecole antidoto contro l’invecchiamento, che sono contenute in grandi quantità nei frutti di colore scuro.
Ma le piante e le loro radici possono anche essere fonte di diversi tipi di proteine con riconosciuta attività farmacologica. Infatti, sono allo studio colture di radici che funzionano come bioreattori naturali in grado di sintetizzare molecole ad altissimo valore aggiunto (anticorpi, peptidi, immunostimolanti) a partire da tessuti che si accrescono grazie a zucchero, semplici sali e vitamine.
Queste radici risultano resistenti ad alte dosi di radiazioni gamma e protoni (dell’ordine di 10 gray) e proliferano anche dopo dosi di irraggiamento che sarebbero letali per molti altri tipi di cellule.
Un bell’esempio di come ci si può attrezzare per “mettere radici” nello spazio.
18/05/2015
05/05/2015
L’acqua che bevono Samantha Cristoforetti e il resto dell’equipaggio della Stazione Spaziale Internazionale è anche italiana: nasce e parte da Torino, e viene trasportata sulla ISS con il modulo automatico ATV. L’Agenzia spaziale russa ha scelto acqua di falda, estratta dalla Societa` Metropolitana Acque Torino (SMAT) presso la Centrale “Regina Margherita” come la più indicata per i cosmonauti, soprattutto per il suo contenuto di sali. E la vuole addizionata di fluoro, per la salute dei denti. Al contrario, gli astronauti statunitensi preferiscono un’acqua decisamente più “light”, proveniente dalle sorgenti montane del Pian della Mussa, e quindi meno mineralizzata. Non solo gusti e obiettivi nutrizionali diversi, ma anche metodi diversi di disinfezione a garanzia del controllo microbiologico: argento colloidale per i russi, iodio per gli americani. E di conseguenza diverse precauzioni per la produzione, l’immagazzinamento e la certificazione di qualità, sicurezza e stabilità nel tempo.
Ilaria Locantore, chimico progettista presso l’Area Tecnologica “Recyclab” di Thales Alenia Space Italia, proprio a Torino, racconta: “Con 4 missioni di ATV abbiamo portato sulla stazione quasi 2 tonnellate di acqua russa! Abbiamo studiato a lungo, raccolto dati per mesi, e alla fine abbiamo definito un processo affidabile e condiviso dai nostri clienti, per il mantenimento della qualita` dell’acqua durante tutto il ciclo vita: pre-trattamento dei serbatoi utilizzati per raccogliere e trasferire l’acqua a terra, caricamento e controllo periodico della qualità dell’acqua, dalla produzione al lancio”.
Prodotta a Torino e lanciata da Kourou, in Guyana Francese, l’acqua potabile arriva agli astronauti per mantenere a bordo le necessarie scorte idriche, e per compensare la quota che non si riesce a rigenerare a bordo. Sulla ISS infatti, l’acqua si risparmia e si ricicla. Il consumo pro-capite da parte degli astronauti e` di circa 2 litri per bere e reidratare il cibo disidratato, e di mezzo litro per lavarsi con semplici panni umidi. Niente sprechi quindi: il risultato e` un consumo di acqua davvero minimo, se confrontato con i 200 litri circa al giorno del cittadino medio italiano! Ma l’astronauta non si limita ad un uso moderato e razionale di questa preziosa risorsa: tramite processi chimico-fisici di rigenerazione e purificazione presenti a bordo, il ciclo dell’acqua può essere chiuso quasi del tutto, recuperandone il 95% circa, a partire dall’urina e dall’umidità dell’aria di cabina condensata nei sistemi di condizionamento.
Quali sono le criticità attese per progettare i futuri viaggi verso Marte o altre destinazioni non facilmente rifornibili da Terra? Ilaria ci dice: “Grazie all’esperienza maturata, ora sappiamo quali sono gli aspetti critici riguardanti la rigenerazione, la conservazione e disinfezione a lungo termine, e come affrontarli. Sappiamo quanto è necessario sfruttare le risorse disponibili, per risparmiare massa, volume ed energia. Attraverso le nostre ricerche puntiamo a nuovi serbatoi flessibili, riutilizzabili e multi-funzionali: per esempio l’acqua e` un buon materiale per schermare dalle radiazioni cosmiche, quindi perche` non utilizzare “cuscini” d’acqua per proteggere gli astronauti? La disinfezione fara` minore ricorso a prodotti chimici, impiegando ad esempio la luce UV prodotta da LED a basso consumo, e materiali con rivestimenti antimicrobici a base di argento”.
Un giorno anche il ciclo biologico della coltivazione delle piante potrà venirci in aiuto. Per l’esplorazione planetaria la distanza ostacolerà il rifornimento da Terra, e gli astronauti dovranno essere in grado di produrre da sé almeno una parte del cibo. Proprio come nella biosfera terrestre, le piante, oltre a generare ossigeno e rimuovere anidride carbonica, ci aiuteranno a depurare l’acqua. Assumendo dalle radici i reflui usati per l’irrigazione, tratterranno le sostanze nutritive e ci restituiranno acqua più pura attraverso la traspirazione fogliare. Insieme a quella recuperata dagli altri processi, l’acqua verrà raccolta in serbatoi, disinfettata e resa disponibile al bisogno. Impariamo a farlo nei nostri laboratori e a sperimentarlo sulla ISS oggi, per garantirlo durante le missioni di lunga durata domani. E se sfruttiamo il ciclo biologico, come nei cosiddetti sistemi bio-rigenerativi descritti in queste pagine di Avamposto 42, potremo avvicinarci alla “chiusura” dei cicli che caratterizzano le risorse vitali.
L’acqua è essenziale per la vita, la cerchiamo sugli altri pianeti, sulle Lune e le comete per comprenderne l’origine e il viaggio nel cosmo. Si nasconde nei crateri da impatto, in un mantello ghiacciato. Forse un giorno nei viaggi planetari saremo anche in grado di estrarla, utilizzarla, preservarla e riciclarla… sempre senza alcuno spreco.
Cesare Lobascio (Thales Alenia Space – Italia)
Per saperne di più:
The ESA Automated Transfer Vehicle ATV Integrated Cargo Carrier https://www.esa.int/Our_Activities/Human_Spaceflight/ATV/ATV_Integrated_Cargo_Carrier
Thales Alenia Space for ATV https://www.thalesgroup.com/en/worldwide/space/case-study/atv-5-bows-out
30/04/2015
Stefano Polato, Responsabile dello Space Food Lab di Argotec
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Barrette con bacche di goji, alga spirulina e cioccolato Ingredienti (per 4 barrette): 50g di cereali integrali soffiati e in fiocchi 5g di farina di mandorle 20g di malto d’orzo 10g di granella di nocciole 15g di bacche di goji 3g di alga spirulina in polvere o granulare 20g di cioccolato extra fondente 80% cacao 5g di semi di sesamo o semi oleosi misti Procedimento: Unire i cereali alla farina di mandorle, quindi aggiungere bacche di goji, granella di nocciole, semi di sesamo e alga spirulina. Amalgamare bene. Sciogliere a bagnomaria il cioccolato con il malto d’orzo. Versare il cioccolato fuso sui cereali e mescolare bene. Versare il composto su uno stampo ricoperto da carta da forno e con un secondo foglio stendere l’impasto in modo omogeneo. Riporre in frigorifero e lasciare rapprendere. Una volta rappreso il composto, tagliare conferendo la forma desiderata alle barrette.30/04/2015
L’infiammazione è una risposta fisiologica e protettiva dei tessuti (in particolare quelli vascolari) a uno stimolo nocivo. Senza un’adeguata risposta infiammatoria, una ferita anche banale non potrebbe guarire e diventerebbe quindi un rischio mortale. L’infiammazione, come lo stress, è però una risposta d’emergenza: tanto necessaria quanto deleteria se costantemente attiva.
L’infiammazione è costituita da una vera e propria cascata di reazioni biochimiche che coinvolgono in particolare il sistema immunitario: istamina, interleuchina, leucotrieni, trombossani, proteina c reattiva e fibrinogeno sono alcune delle molecole coinvolte che fungono, in alcuni casi, anche da marcatori del processo infiammatorio.
Molte patologie, dall’Alzheimer all’infarto, dal diabete all’artrite, hanno una base infiammatoria comune. Ciò che mangiamo può avere un legame con la propensione dei nostri tessuti ad infiammarsi o meno. Se la nostra dieta sarà ricca di zucchero e grassi vegetali o peggio idrogenati la produzione di molecole infiammatorie sarà accentuata.
Se, al contrario, assumiamo molto pesce azzurro, cereali integrali, verdure e spezie daremo un contributo nelle direzione inversa, cioè di modulazione corretta dei processi infiammatori. Questo ovviamente diventa ancora più importante nei casi in cui una malattia infiammatoria sia già presente. Il contributo dell’alimentazione non è detto che sia curativo ma può dare un aiuto importante nella gestione dei sintomi e dell’evoluzione della patologia stessa.
Dr. Filippo Ongaro
per saperne di piú: filippo-ongaro.it
23/04/2015
Le simulazioni di emergenza sono necessarie e perciò accetto ben volentieri che la caserma dei pompieri dietro casa faccia partire le sirene la sera, anche se mette regolarmente in agitazione nostra figlia un attimo prima che vada a dormire. C’è chi si esercita, come i pompieri, in attesa di una chiamata di emergenza e chi invece, come gli astronauti sulla Stazione Spaziale, si esercita nel caso l’emergenza capiti proprio a lui. Quando ci si trova a circa 400 km dalla Terra bisogna essere in grado di arrangiarsi: gli astronauti a bordo della ISS devono essere addestrati per ogni scenario di emergenza anche perché in alcuni casi persino i contatti radio con i centri di controllo a Terra possono essere interrotti.
Nella simulazione di emergenza di oggi i centri di controllo e l’equipaggio della Stazione Spaziale hanno lavorato insieme in uno scenario di emergenza a bordo (OBT: On Board Training) che prevedeva una perdita di pressione nella ISS dovuta a una fuoriuscita di aria dal modulo giapponese KIBO.
L’allarme è suonato sulla Stazione Spaziale, con il suo penetrante e riconoscibilissimo suono, mentre in contemporanea diversi messaggi di errore si sono accesi qui al centro di controllo: la ISS era entrata in modalità di emergenza. Subito dopo gli astronauti si sono messi in contatto con Houston al Mission Control riportando, comunicando una perdita di pressione a bordo. In questi casi tutte le comunicazioni sono precedute da una frase standard utilizzata per fare in modo che tutti in qualsiasi momento siano consapevoli che si tratta solo di una simulazione e in italiano suona circa come “per l’esercitazione”.
Il direttore di volo a Houston ha già dichiarato la situazione di emergenza (Space Craft Emergency), ovviamente preceduta dalla frase di rito. Nel frattempo Sinje Steffen del gruppo STRATOS del Centro di Controllo Columbus si sta occupando di controllare se il laboratorio spaziale europeo si è o meno riconfigurato automaticamente per lo scenario di perdita rapida di pressione.
Mentre il lavoro procede nei centri a Terra, gli astronauti si dirigono verso le loro navicelle Soyuz, le “scialuppe di salvataggio” della ISS. A bordo ogni astronauta ha il proprio posto e il proprio ruolo. Le navicelle russe sono solitamente il primo punto di raduno in caso di emergenza, per ovvie ragioni. Una volta lì l’equipaggio decide insieme come procedere sulla base della procedura “warning – gather – fight”. Nello scenario di questa volta il loro tempo a disposizione era di cinque ore prima che la Stazione raggiungesse il valore minimo di pressione necessario alla sua sopravvivenza.
Una volta definita l’emergenza gli astronauti hanno iniziato le procedure di controllo di chiusura dei diversi portelli cercando di capire da quale parte la pressione calasse più velocemente e sono riusciti poi, lentamente ma con precisione, a identificare la sorgente della perdita.
Il direttore di volo di Columbus Katja Leuoth e il suo team erano nel frattempo impegnati a stare al passo con il calo di pressione all’interno del laboratorio europeo: ogni componente al suo interno ha infatti un valore minimo di pressione dell’aria e ognuno di loro andava spento prima di raggiungere il livello critico ed essere compromesso. Tuttavia, trattandosi di una simulazione nessuno degli esperimenti è stato veramente spento…
Una veloce perdita di pressione è uno dei tre principali scenari di emergenza definiti per la Stazione Spaziale Internazionale.
A seconda della grandezza della perdita ci sono diversi modi di “tappare il buco”: da una toppa fino all’utilizzo di un materiale simile alla plastilina. Tutto il lavoro è ovviamente eseguito dall’interno della struttura della Stazione ed è relativamente facile: rispetto al vuoto dello spazio la pressione della ISS è decisamente elevata e spinge qualsiasi guarnizione contro la superficie… è molto più semplice che quando si ripara il foro nella ruota di una bicicletta!
Thomas Uhlig, Columbus Control Centre
Nell’immagine di copertina: Samantha Cristoforetti e l’equipaggio della ISS nella sezione russa della ISS durante l’allarme ammoniaca del 15 gennaio 2015. Gli allarmi sono segnati in rosso sugli schermi dei computer.
21/04/2015
Nello Spazio, tutti gli organismi sono esposti a forti livelli di radiazioni ionizzanti, ossia radiazioni dotate di un’energia tale da poter ionizzare gli atomi e le molecole con cui interagiscono. Le radiazioni ionizzanti comprendono radiazioni ultraviolette ad alta frequenza, raggi X, raggi g, neutroni, elettroni ed altri tipi di particelle.
In generale, le piante sono molto più resistenti alle radiazioni ionizzanti rispetto agli organismi animali: dosi letali per gli animali possono infatti avere un effetto positivo o nullo sulle piante.
L’effetto delle radiazioni ionizzanti sulle piante segue uno dei principi fondamentali della tossicologia: come enunciato da Paracelso (Theophrastus Bombastus von Hohenheim) all’inizio del 1500, “Omnia venenum sunt: nec sine veneno quicquam existit. Dosis sola facit, ut venenum non fit” (i.e. “Ogni cosa è veleno, non esiste cosa che non lo sia. Solo la dose fa sì che una sostanza non divenga veleno”). Questa idea, rifiutata per molto tempo, è ora comunemente accettata: è infatti riconosciuto che alcune sostanze possono avere effetti tossici ad alte concentrazioni, mentre a basse dosi possono indurre risposte positive. Tale fenomeno, noto come ormesi, è stato riscontrato anche per quanto riguarda l’interazione tra la radiazione ionizzante e la pianta: l’esposizione ad alte dosi può avere effetti da molto tossici a letali, mentre dosi moderate o basse possono addirittura stimolare la crescita. La soglia di radiazione per cui si può generare danno o ormesi è diversa per ogni pianta e dipende principalmente dalle caratteristiche genetiche e fisiologiche della specie.
Gli effetti delle radiazioni ionizzanti sulle piante variano in funzione del tipo di radiazione, del tipo di esposizione (acuta o cronica), delle dosi, e delle caratteristiche dell’organismo: specie, cultivar (la varietà), stato fisiologico e nutrizionale, ciclo vitale (stadio fenologico) in cui si trova la pianta al momento dell’irraggiamento.
Quando le radiazioni ionizzanti colpiscono la pianta, possono agire a differenti scale: cellula, tessuto, organo, intero organismo. Le radiazioni ionizzanti possono provocare alterazioni geniche (mutazioni) che poi si traducono in modifiche nello sviluppo, nella morfologia e nel metabolismo della pianta. Possono anche provocare danni diretti ai tessuti ed agli organi oppure determinare danni dovuti alla produzione di radicali liberi (ROS – Reactive Oxygen Species). Questi ultimi sono molecole instabili ed estremamente reattive che possono danneggiare macromolecole strutturali e funzionali quali lipidi, proteine e acidi nucleici. La resistenza delle piante alle radiazioni ionizzanti è in alcuni casi dovuta alla presenza di più copie nel genoma di uno stesso gene (poliploidia) per cui se una copia di un gene è danneggiata, ne esiste una di riserva (back-up) che ne garantisce comunque l’espressione. Le cellule vegetali sono inoltre capaci di mettere in atto meccanismi cellulari molto complessi per riparare il DNA danneggiato o per rimuovere i radicali liberi.
Elevate dosi di radiazioni possono agire negativamente sugli organismi vegetali riducendo la capacità di germinazione, ostacolando il completamento dei cicli riproduttivi e prevenendo quindi la produzione di frutti e semi. Il nanismo della pianta, generalmente considerato un effetto di crescita negativo per un individuo, è tuttavia da valutare come effetto positivo per la crescita delle piante nello Spazio dove ci sono limitazioni nei volumi a disposizione per la coltivazione. Basse dosi di radiazione possono determinare effetti positivi tra cui si annoverano l’aumento della produzione di frutti e semi, una migliore capacità delle piante di resistere agli stress ambientali (per es. deficit idrico) e l’aumento del contenuto di sostanze antiossidanti in alcuni tessuti che può avere importanti conseguenze sul valore nutrizionale delle parti commestibili delle piante coltivate nello Spazio.
In conclusione, le radiazioni ionizzanti, tanto pericolose per l’uomo e per gli organismi animali in genere, potrebbero essere addirittura utilizzate nello spazio come strumento per aumentare la quantità e la qualità delle parti delle piante da utilizzare come cibo fresco prodotto direttamente a bordo.
Università di Napoli/Veronica De Micco, Carmen Arena & Giovanna Aronne08/04/2015