I tre alleati per la salute delle ossa
26/05/2015
26/05/2015
Le reazioni metaboliche del nostro organismo si possono grossolanamente suddividere in cataboliche e anaboliche. Nelle prime, si verifica una distruzione di tessuti finalizzata a produrre energia. Mentre nelle seconde si usa energia per sintetizzare e riparare i tessuti stessi. Fino ai 30-40 anni di età sulla Terra il nostro corpo vive in una condizione di equilibrio tra catabolismo e anabolismo. Con il passare degli anni iniziano a prevalere le reazioni cataboliche che portano ad una progressiva riduzione della massa muscolare e ossea. Negli astronauti, indipendentemente dall’età, la vita nello spazio stimola il catabolismo accelerando di molto la distruzione del tessuto osseo e muscolare.
In questo video l’ astronauta ESA Andreas Mogensen ci mostra come la salute delle ossa degli astronauti sia studiata anche ben prima della partenza per la Stazione Spaziale:
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Nel caso dell’osso esistono cellule diverse deputate a sintetizzare osso e a riassorbirle, dette rispettivamente osteoblasti e osteoclasti. Sulla Terra, così come nello spazio, una nutrizione corretta e un piano di esercizio fisico completo possono contribuire a stimolare le risposte anaboliche. Va ricordato che l’attività fisica di per sé ha un effetto catabolico sull’organismo e che è tramite il recupero e l’introduzione di alimenti che si attiva la risposta anabolica che porta al miglioramento della prestazione e all’aumento della massa muscolare e ossea.
Esiste, quindi, una sinergia fondamentale tra attività fisica, recupero e nutrizione sia sul piano quantitativo che qualitativo. Per esempio, è fondamentale la tempistica dell’introduzione di alimenti rispetto all’attività fisica. Non assumere alimenti immediatamente dopo lo sforzo non permette di attivare la risposta anabolica e rischia di far diventare l’allenamento controproducente.
Dr. Filippo Ongaro
Per saperne di più: www.filippo-ongaro.it/
21/05/2015
La luce è la sorgente di energia utilizzata dalla piante per la fotosintesi clorofilliana, ovvero il processo che consente alla pianta di “nutrirsi” e crescere, producendo al contempo ossigeno che viene liberato nell’aria. Le piante per vivere hanno quindi bisogno di luce e questo è vero sulla Terra come nello Spazio. La differenza fondamentale della crescita di piante nello Spazio sta nel fatto che la luce solare non è immediatamente fruibile come sulla Terra, o perché è eccessiva, come nei sistemi orbitali dove è quella diretta proveniente dal Sole (che è circa tre volte superiore alla massima che colpisce il suolo alle nostre latitudini), o perché non disponibile (come potrebbe essere nell’ambiente all’interno di navicelle spaziali o in serre planetarie schermate contro le radiazioni), o perché è molto ridotta a causa della maggiore distanza dal Sole e delle diverse condizioni ambientali presenti sugli altri pianeti.
Basta pensare ai diversi cicli giorno/notte (sulla Luna le notti durano circa 2 settimane), alle grandi tempeste di sabbia su Marte (che schermano la luce e la cui di durata non è prevedibile), all’assenza di un atmosfera come quella terrestre, che filtra o attenua le componenti dannose della luce solare. Tutto ciò fa sì che le piante non ricevano la luce nel modo in cui sono “abituate” sulla Terra, rendendo molto complicato, se non impossibile, la loro crescita.
Attualmente sono in fase di studio diversi sistemi che utilizzano la luce solare per illuminare le serre spaziali. Tali sistemi, più o meno complessi, utilizzano degli specchi parabolici, o altre tipo di ottiche, che concentrano i flussi luminosi in fibre ottiche che portano e distribuiscono la luce all’interno delle serre (Fig.1 e Fig.2). Tuttavia, per quanto detto, le prestazioni di tali sistemi sono direttamente legate alle condizioni ambientali e non risolvono completamente i problemi descritti precedentemente. L’indisponibilità totale o ridotta di luce naturale porta quindi alla necessità di progettare e realizzare degli impianti di illuminazione artificiale che siano complementari o alternativi a quelli che sfruttano la luce del sole, in grado di rispettare il ciclo biologico selezionato delle piante coltivate (che potrebbe anche essere diverso dal ciclo giorno-notte naturale) e di fornire la giusta quantità (e qualità) di luce per garantire una corretta crescita delle stesse. Tali sistemi devono garantire:
· Un’elevata efficienza di conversione tra energia elettrica e radiazione luminosa necessaria per la fotosintesi clorofilliana.
· Flessibilità per quello che riguarda la qualità della luce (cioè la possibilità di modificare la composizione dello spettro luminoso).
· Flessibilità per quello che riguarda l’intensità (cioè la possibilità di programmare la quantità di luce che raggiunge le piante) in maniera da garantire corretti cicli giorno/notte.
· Basso carico termico (parte dell’energia elettrica si trasforma in calore che può creare problemi nel controllo termico delle camere di crescita).
· Peso e volume ridotti delle sorgenti luminose e dei sistemi ad esse associati (in una missione spaziale è obbligatorio risparmiare peso al lancio).
· Durata e affidabilità delle sorgenti luminose (per limitare le attività di manutenzione e gli eventi di sostituzione).
Per le caratteristiche del loro spettro luminoso e per l’alta intensità di luce emessa, le lampade che potrebbero essere prese in considerazione per una serra spaziale sono quelle ai vapori di sodio (HPS), quelle agli ioduri metallici (MH) o le lampade a fluorescenza.
Le lampade ai Vapori di Sodio (HPS) hanno uno spettro luminoso paragonabile a quella del Sole in estate e sono ricche delle componenti nel rosso e arancione. Le lampade HPS standard mancano della parte blu dello spettro luminoso. Per ovviare a questo problema da alcuni anni esistono in commercio lampade HPS ad ampio spettro dotate della capacità di emettere anche luce nel blu. Queste ultime danno la possibilità di impiegare un solo tipo di lampada per tutto il ciclo di vita della pianta, sia per la crescita vegetativa (fase di crescita della pianta prima della fioritura) che per la fase riproduttiva (fioritura e fruttificazione).
Le lampade agli Ioduri Metallici (MH) hanno uno spettro luminoso con una maggiore presenza delle componenti nel blu e nel violetto rispetto alle lampade HPS, pertanto sono indicate soprattutto nella fase di crescita vegetativa. Anche in questo caso esistono dei prodotti specifici per l’utilizzo in serra, che offrono migliori prestazioni rispetto alle lampade standard.
Le lampade a fluorescenza hanno una resa minore rispetto a quelle agli ioduri metallici ma possono essere una valida alternativa nelle fasi iniziali del ciclo di sviluppo delle piante visto i costi ridotti d’acquisto e di gestione. Inoltre, hanno il vantaggio di produrre meno calore e interferiscono meno con i sistemi di controllo della temperatura in serra. La loro evoluzione ha portato sul mercato lampade a fluorescenza compatte con prestazione maggiori e consumi contenuti.
Tuttavia, le lampade descritte non risolvono alcuni dei problemi indicati sopra. In particolare non hanno lunga durata e quindi sarebbe necessario un gran numero di lampade di riserva con conseguente aumento del carico da trasportare e delle attività di manutenzione richieste. Inoltre sono delicate e potrebbero non resistere alle sollecitazioni al lancio. Infine, richiedono una grande potenza che potrebbe non essere disponibile nei luoghi di installazione delle serre.
Da questo punto di vista i pannelli a LED (Light Emitting Diode) sembrano la soluzione ideale per serre da costruire nello spazio, per camere di crescita a bordo di stazioni spaziali orbitanti o navicelle spaziali. I LED hanno una durata molto maggiore delle lampade descritte (100.000 ore rispetto alle 24.000 ore delle lampade a vapori di sodio), sono dotati di ampia flessibilità in termini di composizione dello spettro luminoso di emissione (nei sistemi a LED è possibile combinare le diverse componenti di coloro) che di intensità luminosa (cosa che li rende molto facili da utilizzare in sistemi automatici), non hanno bisogno di una grande potenza di alimentazione e non generano molto calore. Per questi motivo gli apparati per gli esperimenti di crescita delle piante a bordo della ISS implementano questa soluzione. Un esempio è camera di crescita VEGGIE (immagine di copertina), installata a bordo della ISS nell’estate del 2014.
Ovviamente le lampade, di qualsiasi tipo siano, richiedono energia elettrica per essere alimentate, e questo pone un altro problema. Come si genera l’energia necessaria ad alimentare i sistemi di illuminazione (ma più in generale per tutti i sistemi che caratterizzano un struttura spaziale)?
La risposta è semplice. E’ ancora il Sole e la possibilità di trasformare la sua energia luminosa attraverso i pannelli fotovoltaici. Tutti i satelliti, non appena arrivano in orbita dispiegano i loro pannelli fotovoltaici per iniziare a generare l’energica elettrica che serve al funzionamento dei vari sistemi. La stessa ISS è dotata di quattro coppie di pannelli, ognuna delle quali misura 73 metri da un’estremità all’altra. Tutte le sonde e i rover mandati su altri pianeti sono dotati di analoghi pannelli fotovoltaici. Una serra su un altro pianeta, piuttosto che a bordo di qualsiasi piattaforma spaziale, non potrà fare a meno di utilizzare questa tecnologia per avere energia elettrica disponibile.
Antonio Ceriello, Giuseppe De Chiara – Telespazio
18/05/2015
I progressi della ricerca agronomica, come la coltura “fuori suolo” (idroponica), consentono di allevare piante in luoghi e spazi un tempo ritenuti impossibili. Uno dei luoghi più estremi che si possano immaginare per la coltivazione di piante è certamente la Stazione Spaziale Internazionale, un laboratorio multidisciplinare in cui la ricerca è attiva anche per individuare le condizioni ideali per poter realizzare il riciclo di risorse vitali (tecnologie bio-rigenerative).
Nel quadro del progetto “BIOxTREME” finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana, il Laboratorio Biotecnologie dell’ENEA sta esplorando il potenziale delle piante per utilizzarle non solo come fonte di integratori alimentari antiossidanti, ma anche come sorgente di sostanze antimicrobiche. Questo al fine rendere più salubre sia l’ambiente nelle stazioni spaziali che la vita degli astronauti, rafforzandone le difese nei confronti della comunità microbica “importata” dalla terra che, nell’ambiente confinato dei veicoli spaziali, può rappresentare un grave pericolo per uomini e strutture.
Piante “tuttofare” dunque, che innescano un ciclo bio-rigenerativo di risorse vitali, come acqua e ossigeno, eliminando anidride carbonica, favorendo così la sostenibilità degli habitat delle stazioni orbitanti e costituendo allo stesso tempo un alimento ricco di molecole ad alto valore aggiunto.
Con questi obiettivi l’ENEA dedica la ricerca ad un tipo di pomodoro, il MICROTOM, nato come cultivar ornamentale, ma che, per portamento e caratteristiche intrinseche, ben si adatta ad un orto spaziale. Si cercherà quindi di costruire un “ideotipo” resistente alle condizioni estreme nello spazio come: assenza di gravità, radiazioni cosmiche, campi elettromagnetici. Una combinazione genetica per produrre piante in grado di accumulare grandi quantità di sostanze antiossidanti come le antocianine, le famose molecole antidoto contro l’invecchiamento, che sono contenute in grandi quantità nei frutti di colore scuro.
Ma le piante e le loro radici possono anche essere fonte di diversi tipi di proteine con riconosciuta attività farmacologica. Infatti, sono allo studio colture di radici che funzionano come bioreattori naturali in grado di sintetizzare molecole ad altissimo valore aggiunto (anticorpi, peptidi, immunostimolanti) a partire da tessuti che si accrescono grazie a zucchero, semplici sali e vitamine.
Queste radici risultano resistenti ad alte dosi di radiazioni gamma e protoni (dell’ordine di 10 gray) e proliferano anche dopo dosi di irraggiamento che sarebbero letali per molti altri tipi di cellule.
Un bell’esempio di come ci si può attrezzare per “mettere radici” nello spazio.
18/05/2015
Vivere nello spazio in assenza di gravità può sembrare divertente e rilassante ma è in realtà una condizione piuttosto logorante.
La Stazione Spaziale orbita attorno alla Terra a circa 400 km di altezza e a 28.000 km/h. Vuol dire che il ritmo naturale sonno-veglia è completamente alterato e mantenuto artificialmente grazie alle luci a bordo. Si vive fuori dall’atmosfera e, quindi, si è esposti ad una quantità di radiazioni enormi rispetto a quelle presenti sulla Terra. Le apparecchiature di bordo sono rumorose a tal punto che vivere nella Stazione Spaziale è un po’ come stare per dei mesi in una cabina di un aereo.
In più siamo in una situazione di assenza di peso che comporta un adattamento muscolare e scheletrico importante con perdita di tessuto, di forza e di capacità funzionale. Per questo si stima che sei mesi in orbita equivalgano grosso modo a dieci anni sulla Terra.
Per contrastare questo processo di invecchiamento agli astronauti viene prescritto non solo un programma nutrizionale preciso ma anche un piano di attività fisica piuttosto intenso di circa due ore al giorno e che comprende sia attività aerobica che attività muscolare, ovviamente svolte su attrezzi sviluppati appositamente per la stazione spaziale. Questo programma viene in gergo chiamato piano di contromisure, proprio a sottolineare la volontà di contrastare le alterazioni causate dallo stare nello spazio.
Dr. Filippo Ongaro
14/05/2015
Un cargo russo, il Progress 59P, non raggiunge la Stazione Spaziale Internazionale e, come conseguenza, Samantha Cristoforetti prolunga la sua permanenza in orbita.
Vi pare normale? Non ci si aspetterebbe forse il contrario?
Mi spiego. Il Progress avrebbe portato sulla ISS oltre 2350 kg di cibo, 420 kg di acqua, circa 50 kg di ossigeno, in aggiunta al 1300 kg di materiale vario e 500 kg di propellente. Passi per il materiale vario – fra cui i celebri calzini di Samantha: acqua e cibo sono fondamentali per gli astronauti così come per i terricoli. Se ci avessero chiesto di indovinare la reazione da parte degli astronauti, tutti noi avremmo pensato a un anticipo del termine della missione. Niente di tutto questo. Perché?
Andiamo per punti.
La Stazione Spaziale è una casa nello spazio.
Vero, ma questo non significa che gli astronauti aspettino il sabato pomeriggio per fare la spesa al supermercato, come invece facciamo noi terrestri. Niente ultimo momento, dunque: i rifornimenti arrivano molto prima dello stato di necessità e, grazie a un’attenta programmazione delle scorte, la Stazione ha parecchie settimane di autonomia.
Quindi niente panico: lassù non mancano né cibo né acqua e non c’è nessun bisogno di rientrare prima del momento previsto.
Il carico del Progress non ha raggiunto la Stazione perché, a quanto pare, c’è stato un malfunzionamento del terzo stadio del lanciatore Soyuz. Qualcosa è andato storto appena prima del rilascio del cargo.
Il lanciatore Soyuz-U, però, è parente prossimo del lanciatore Soyuz-2, che viene utilizzato per portare sulla ISS gli astronauti. Dato che il lancio del nuovo equipaggio era previsto entro poche settimane, l’Agenzia Spaziale russa Roskosmos ha preferito ritardare la partenza per chiarire esattamente il tipo di guasto che ha prodotto la perdita del Progress. Chi potrebbe darle torto?
Samantha e i suoi colleghi Terry Virts e Anton Skaplerov dovevano lasciare la ISS il 13 maggio.
Vero, ma se il rientro di Samantha & co fosse avvenuto regolarmente, in attesa di chiarire gli aspetti tecnici del Soyuz, la casa spaziale correva il rischio di rimanere abitata dai soli Scott Kelly, Mikhail Kornienko e Gennady Padalka per molti più giorni di quanto non fosse previsto. E questo avrebbe comportato ritardi negli esperimenti e nelle attività previste in orbita.
A cui la decisione di chiedere a Samantha, Terry e Anton uno sforzo aggiuntivo.
A giudicare dai sorrisi raggianti di Samantha, non ci pare che ci sia voluto molto per convincerla: per le prossime settimane, continuerà a sfrecciare a circa 28mila km all’ora. E questo forse spiega perché riesce a fare tante cose, oltre al lavoro vero e proprio: video, foto, collegamenti.
Il segreto? Semplice: Samantha va veloce.
13/05/2015
06/05/2015
Gli oli vegetali, ricavati dai frutti o dai semi di molte piante, sono un’ottima alternativa al burro e alla margarina, troppo spesso usati in cucina, perché rispetto a questi sono molto meno impattanti per l’organismo e, se si fa attenzione al punto di fumo, sono certamente anche più salubri. Stefano Polato, impegnato con Argotec nella missione Futura, frutto della stretta collaborazione tra ASI, ESA e Aeronautica Militare, ci ha già spiegato come sia possibile scegliere tra diverse tipologie di olio, in base alle nostre esigenze e ai gusti personali. Al di là dei grassi canonici vegetali o animali, dovremmo prendere maggiormente in considerazione anche i semi oleosi che ben si prestano per la preparazione di snack dolci o salati: «Si tratta di una fonte molto ricca di nutrienti, come per esempio sali minerali, vitamine, fibra e antiossidanti, solo per citarne alcuni. Proprio per questo motivo li abbiamo usati nella preparazione del bonus food di Samantha Cristoforetti. In effetti, nella sua barretta biologica con bacche di Goji, cioccolato e spirulina, sono presenti anche semi di sesamo e di lino. Questi possono essere usati senza ombra di dubbio anche sulla Terra. Si pensi alla produzione del semplicissimo pane: se li aggiungiamo, possiamo dargli gusto e caricarlo da un punto di vista nutrizionale. In questo modo, possiamo conferire al nostro organismo tutti quei micronutrienti che spesso mancano».
I semi oleosi sono perfetti anche per la colazione e per gli altri pasti della giornata. Per questo motivo, dovrebbero essere sempre bene in vista all’interno delle nostre dispense. Non a caso, il responsabile dello Space Food Lab di Argotec è un convinto sostenitore di un loro uso quotidiano, sia sul nostro pianeta sia a bordo della Stazione Spaziale Internazionale: «Per la colazione, se volete iniziare al meglio la giornata, il mio suggerimento è quello di mangiare un po’ di yogurt greco con semi di papavero, ottimi anche negli impasti di prodotti da forno e di pasticceria, insieme a un filo di miele. I semi oleosi sono perfetti anche per dare croccantezza quando prepariamo una vellutata o qualcosa di cremoso: basta aggiungere dei semi di girasole o di zucca tostati per trasformare il vostro piatto. Lo stesso vale per le insalatone, che possono essere facilmente arricchite da questi semi. Personalmente, io utilizzo molto spesso anche i semi di cumino. Questi hanno un aroma intenso, con un retrogusto amarognolo, e mi permettono di insaporire i piatti a base di carne, verdure o legumi. Provateli anche voi».
Per saperne di più: https://www.argotec.it/argotec/
06/05/2015
05/05/2015